Le emozioni del cuore. Aspetti psicologici dell’intervento cardiochirurgico.

Introduzione

E’ un grande piacere per me presentarvi un autore-ospite di questo blog, lo psicologo e psicoterapeuta Martino Regazzi. Martino ha raggiunto l’équipe del Cardiocentro Ticino circa un anno fa. Sostiene i nostri pazienti e dà a tutto il personale operativo (infermieri, cardiologi e cardiochirurghi) un prezioso aiuto nella comprensione delle ripercussioni psicologiche delle malattie cardiovascolari e dei loro trattamenti. Martino si occupa di qualcosa che si trova all’antipode di quello che noi trattiamo con le tecniche e tecnologie di punta: l’anima e la mente del paziente. Nonostante noi esseri umani sentiamo cuore e anima come un’unità, noi operatori vestiti di blu e di verde ne curiamo prevalentemente la dimensione somatica. L’empatia con i pazienti fa parte del nostro approccio, ma solo questo non basta. La cura dell’altra dimensione, della mente e dell’anima, che soffrono quasi sempre in parallelo, è complessa e difficile. Ecco perché sono particolarmente grato a Martino, che ha accettato l’invito a contribuire con un intervento mirato proprio in questa materia.

(L’immagine “Dalla profondità del mio cuore” è opera dell’artista David Munroe che ha acconsentito alla sua pubblicazione in questo blog).

Le emozioni del cuore. Aspetti psicologici dell’intervento cardiochirurgico.

Martino Regazzi 

Prima dell’intervento

La diagnosi di patologia cardiaca ha una marcata valenza emotiva, caratterizzata da sentimenti contrastanti e invasivi. Poter dare un nome al disturbo, permette al medico d’individuare la cura migliore e al paziente di mobilitare le proprie risorse interne per  riuscire a rappresentarsi il male di cui è affetto.  Per quanto in quest’ultimo venga mossa un’indubbia angoscia  per l’incertezza delle cure da intraprendere, poter nominare prima dell’intervento  il male da contrastare porta con sé, se non rassicurazione, perlomeno la determinazione a lottare sapendo contro che cosa occorre combattere.

È quindi certo che la prospettiva di una cura medica attivi una forte carica emotiva, soprattutto se è presente l’indicazione a un intervento cardiochirurgico. A ulteriore testimonianza dell’inscindibile legame tra mente e corpo, il cuore è oltretutto l’organo che maggiormente stimola riferimenti simbolici che coinvolgono la nostra affettività. Ne consegue l’inevitabilità che la patologia cardiaca attivi sentimenti angoscianti.

Quando poi il soggetto si appresta ad affrontare una situazione emotivamente carica come quella di un “intervento a cuore aperto” la sua mente non può sottrarsi alla predisposizione di dispositivi  di difesa, consci e inconsci, per proteggersi e far fronte alle paure e alle angosce. Sarà dopo l’intervento, che si porrà la necessità di trovare spazio e tempo per una efficace elaborazione di tale esperienza emotiva.

 In un certo senso si può dire che ogni paziente che deve sottoporsi a un intervento cardiochirurgico sta metaforicamente affrontando un viaggio verso l’ignoto, carico di dubbi e incognite. Emotivamente egli è (ordinariamente) pervaso e dominato da  stati d’ ansia persecutoria che si manifestano come un segnale istintivo  che tende a fargli  vedere l’immediato futuro (e ciò che si prospetta di fare su di lui) come un evento potenzialmente pericoloso, tale in ogni caso  da mantenerlo in uno stato di viva allerta. In questo clima emotivo, egli è costretto a misurarsi con l’incertezza derivante da una prospettiva sconosciuta che, volente o nolente , impegna la sua immaginazione. L’immaginario può però essere una fonte di profondo disturbo se egli non riesce a rapportarsi realisticamente a ciò che lo aspetta. Pur essendoci persone in grado di svolgere convenientemente un adeguato  esame di realtà, per la maggior parte dei pazienti, la possibilità di essere accompagnati  nell’approfondire del proprio vissuto in questi momenti aiuta a dare un nome condiviso al subbuglio interiore e ad affrontare le proprie burrasche emotive anziché subirle. A tutto vantaggio dell’efficacia dell’intervento chirurgico e delle successive cure mediche.

In conclusione possiamo dire che, prima di un intervento cardiochirurgico, il lavoro principale che il paziente deve prepararsi ad affrontare, è quello di dare una forma e una pensabilità al proprio vissuto interiore per elaborare e non subire la forte carica che caratterizza emotivamente l’esperienza che lo aspetta. Questo è soprattutto possibile se egli riesce a mobilitare la propria capacità di “navigare nell’incertezza” senza andare a pezzi  e sviluppando pertanto dentro di sé ciò che il poeta John Keats ha, su altri piani, per primo definita come Capacità Negativa: la capacità essenziale che un uomo ha di convivere con il mistero e con il dubbio, tollerando di rimanere il più a lungo possibile nel’incertezza. Essenziale, data la difficoltà del compito, poterlo svolgere con qualcuno accanto.

Dopo l’intervento

Prendersi cura di una persona non significa solamente guarire l’organo malato ma, assumersi anche gli aspetti psicologico-relazionali toccati  dall’intervento cardiochirurgico.

Nel merito, Bernard Lown [1}, premio Nobel e professore emerito di cardiologia alla Harvard School of Public Health, a cui dobbiamo il defibrillatore e le moderne unità coronariche, scrive: “l’assenza di attenzione per l’aspetto psicologico impoverisce la medicina nel suo nucleo vitale scindendo la cura dalla guarigione”. A ciò si può aggiungere che non è pensabile curare il corpo credendo che esso sia separato dalla mente e viceversa negando, di conseguenza,  l’esistenza di una correlazione tra le emozioni di una persona e il suo sistema cardiovascolare.

L’intervento cardiochirurgico infligge al corpo una grande aggressione, un trauma. Se l’impatto sul corpo appare scontato e prevedibile già prima dell’intervento, le ricadute a livello psichico sono spesso meno esplicite e colgono il paziente di sorpresa.

L’ambiente altamente specializzato e la competenza del medico possono indurre il paziente a credere che tutto ciò che egli deve fare sia di “mettersi nelle mani” degli specialisti. Resta il fatto che, dopo l’intervento, molti pazienti testimoniano di emozioni raramente sperimentate in precedenza, che si manifestano senza preavviso e che devono essere elaborate. Si accorgono che ora tocca a loro un importante lavoro psichico. Si impone quindi, dopo l’intervento, che anche l’aspetto mentale, come quello fisico,  disponga di un adeguato periodo di “riabilitazione”.

Riabilitazione cardiovascolare e riabilitazione della mente.

 Dopo un intervento cardiochirurgico, è dato per scontato un periodo di riabilitazione cardiovascolare. Il corpo richiede infatti  tempo e impegno per recuperare una buona funzionalità. Ciò che sostengo è che, così come per il corpo, anche per la mente dobbiamo predisporre un periodo di “riabilitazione”. Se volessimo rappresentare metaforicamente il lavoro mentale richiesto al paziente per elaborare gli stimoli accumulati durante l’ospedalizzazione, potremmo paragonarlo alla digestione [2]. Anche la mente riceve, a modo proprio, un cibo (nello specifico: un cibo particolarmente “pesante”) e deve digerirlo. Gli stimoli esterni e interni  non possono sottrarsi al necessario,complesso lavoro di elaborazione e trasformazione.

L’intensità emotiva di un’esperienza tipo intervento cardiochirurgico, carica l’apparato mentale di una quantità e varietà di contenuti  che, solo se trasformati ( quindi assimilati) , riescono ad acquisire un senso e un significato. Questa trasformazione-digestione non è automatica e può anche fallire costringendo l’apparato mentale ad adottare un funzionamento evacuativo che consiste nello scaricare l’eccesso di cariche da qualche parte. E ciò che primariamente è esposto a subire tali scariche, pagandone le conseguenze (per esempio tramite la somatizzazione) è ancora lo stesso corpo.

Per evitare un tale esito, il paziente deve riuscire a concedersi un periodo sufficientemente lungo di tempo non solo per rimarginare le ferite organiche ma anche per adeguatamente trasformare gli stimoli accumulati. Se occorre, non facendolo da solo. Lo scopo è di dare un senso e un significato a ciò che ha vissuto, valorizzando momenti introspettivi e riflessivi, pensando alla propria malattia, e ristrutturando infine la sua immagine corporea.

Martino Regazzi

[1] Lown B., L’arte perduta di guarire. Garzanti, 1997

[2] Bion W.,  Elementi della Psicoanalisi, Armando, Roma, 1973